La rivolta degli emarginati della terra

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vanni-merlin
00sabato 14 gennaio 2006 19:03

DALL'EGITTO AL CHIAPAS
La rivolta degli emarginati della terra


Quali punti in comune possono unire la rivolta zapatista in Messico con quella islamista in Egitto? Per quanto sorprendente possa sembrare, questi conflitti violenti hanno caratteristiche comuni. Sono provocati da gruppi marginali, in regioni periferiche, impoverite dalla progressiva assenza dello stato e dalla fine delle speranze suscitate dalle politiche di sviluppo degli anni Sessanta. In entrambi i casi, infine, il discorso religioso ha un particolare valore e spinge i ribelli, convinti della loro giusta causa, ad accettare una lotta impari.

di Dan Tschirgi*
La rivolta zapatista in Messico e quella islamista della Jama'a islamiya appaiono a prima vista molto diverse. La prima, dopo il suo sanguinoso esordio, sembra essersi in parte trasformata in un "happening" internazionale della sinistra, mentre la seconda si è disintegrata di fronte alla potenza del fuoco nemico, ai cadaveri mutilati e al rifiuto opposto dalla popolazione davanti ai sanguinosi attentati.
Tuttavia gli zapatisti e la Jama'a islamiya sono la conseguenza di una stessa realtà: in determinate condizioni gli emarginati si ribellano, indipendentemente dalle loro possibilità di successo. Le due rivolte sono guidate da gruppi marginali delle rispettive comunità nazionali, ma nessuna delle due costituisce una minaccia militare per il potere in carica. Queste due ribellioni sono quindi doppiamente emarginate. Tuttavia sono unite da legami molto profondi. Nonostante le differenze, sono manifestazioni di uno stesso tipo di dinamica e possono essere definite come conflitti interni violenti e marginali. Le conseguenze pratiche ed etiche di questa prospettiva sono il frutto delle decisioni prese in nome dello sviluppo economico da governanti che, si suppone, dovrebbero preoccuparsi del futuro di tutti i loro concittadini.
"Possono uccidere Chus, uccidere i nostri capi", dice l'uomo.
"Ma farebbero meglio a uccidere la miseria che continuerà a produrre gente come noi". A pochi metri da lì, davanti al camino, la madre prepara la cena mentre i bambini giocano con un cucciolo sulla terra battuta. L'uomo parla pacatamente, evoca continuamente la necessità di conquistare "rispetto" e "dignità".
E' decisamente ottimista, non per sé ma forse per i suoi figli, o per i suoi nipoti.
Chi parla è Chus. L'ambiente riassume tutta la miseria di cui parla: una buia capanna nella valle piovosa coperta di giungla che scende dalle alture del Chiapas fino alla selva Lacandona.
E' l'estate 1995, diciotto mesi dopo la comparsa sulla scena politica messicana dell'Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln), che si impadronisce di diverse città del Chiapas centrale prima di ripiegare sul terreno accidentato delle valli limitrofe. Gli zapatisti rimarranno lì, in quella che chiamano la "zona di conflitto", cercando di conquistare sul piano politico quello che "razionalmente" non hanno alcuna speranza di conquistare con le armi. Ma Chus e altri come lui non si lasciano impressionare dalla "razionalità". Il loro ottimismo a lungo termine è incrollabile, quanto la loro convinzione che se la strada politica è senza uscita, la via del futuro sarà aperta con la forza delle armi.
In fin dei conti è proprio il contesto politico nazionale nel quale sorge il movimento zapatista che impedirà al governo messicano di inviare le truppe per annientare quello che all'epoca non è più di un migliaio di combattenti male armati.
Perché la richiesta fondamentale degli zapatisti, cioè una riforma del sistema politico che garantisca la democrazia, ha vasta eco in una società che non ha più fiducia né nelle istituzioni né in coloro che la governano. E incontrano simpatia anche le critiche rivolte a una classe dirigente e a un governo egoisti, che hanno voltato le spalle alle vere priorità nazionali e culturali del Messico.
Sebbene la maggior parte degli attivisti provenga da una popolazione emarginata i maya del Chiapas e i diritti degli indigeni figurino in cima alle rivendicazioni zapatiste, gli obiettivi dichiarati e le giustificazioni della rivolta sono basati esclusivamente su valori di carattere nazionale. E poiché le modeste riforme governative del sistema elettorale sono fallite, il governo tenuto conto della simpatia testimoniata agli zapatisti dai partiti di opposizione e dalla società civile preferirà il negoziato allo scontro militare.
Un potere locale clientelare Ma prima che intervenga il cessate il fuoco, i combattimenti faranno tra i 1.000 e i 1.500 morti, cifre che dimostrano ampiamente la devozione dei ribelli alla loro causa. Monsignor Samuel Ruiz, vescovo di San Cristobal de Las Casas non avrà bisogno di contare i cadaveri per capire la situazione.
Accettato come mediatore da entrambe le parti, i suoi trent'anni di ministero nella regione gli conferiscono non solo una profonda comprensione della sorte dei suoi fedeli indiani, ma anche una certa responsabilità nello sviluppo dell'attivismo rivoluzionario in Chiapas. Monsignor Ruiz farà del suo meglio per trovare una soluzione politica ma si dimetterà nel 1998 per protestare contro quelle che considera solo tattiche dilatorie del governo. Chissà se un giorno il conflitto sarà risolto con mezzi pacifici.
Nello stesso anno in cui Chus manifesta il suo ottimismo sull'esito finale di una rivolta senza speranza, al Cairo alcuni membri della Jama'a islamiya accolgono la loro condanna a morte con grida di gioia e di fiducia nella vittoria finale della loro causa. Al contrario della lotta degli zapatisti, quella degli egiziani non sarà alleviata da alcun tipo di negoziato. La carneficina durerà più a lungo e all'Egitto costerà più cara che al Messico.
Nessun avvenimento particolare segna l'inizio dell'offensiva della Jama'a all'inizio degli anni Novanta. Ma già dal 1992 è evidente che il Cairo si trova di fronte a una vera e propria rivolta, le cui origini si situano nel sud del paese, nell'Alto Egitto. Grazie alle reti create nel corso degli anni nei quartieri poveri del Cairo e di altre città, la Jama'a riuscirà a estendere la sua lotta, per lo più terroristica, in buona parte del paese. Ma è l'Alto Egitto il focolaio principale.
Libero dalle complicazioni politiche con le quali devono fare i conti i dirigenti messicani, l'autoritario governo egiziano non esita a colpire la Jama'a islamiya con drastiche misure eccezionali: arresti in massa, condanne a morte e dall'ottobre 1992 corte marziale per i militanti sospetti. A partire dal 1996 il governo riprende in mano la situazione. Gli attacchi non cessano, ma diventano abbastanza rari da permettere il ritorno dei turisti. Nonostante diversi scontri sporadici nell'Alto Egitto, alcuni dirigenti propongono un cessate il fuoco nella primavera 1996, offerta riproposta un anno dopo quando sei importanti dirigenti della Jama'a chiedono di mettere fine alle violenze. Rifiutate dal governo, queste iniziative sono considerate come segni di dissenso personali all'interno dell'organizzazione. Cosa che sarà confermata nel novembre 1997, quando una sessantina di turisti saranno massacrati a Luxor.
Con l'attacco di Luxor la Jama'a tocca il fondo. La stragrande maggioranza degli egiziani è scandalizzata dalla carneficina perpetrata in nome dell'islam. La divisione in seno alla Jama'a è evidente, i suoi principali dirigenti sono apparentemente uniti nella condanna di una "violazione" che sarà più dannosa per la Jama'a che per il governo. E mentre le autorità continuano ad arrestare, a condannare e talvolta a giustiziare i membri dell'organizzazione, si verificano solo alcuni scontri di minore importanza. Nel 1999 il turismo, senza essersi completamente riavuto dal massacro di Luxor, registra una ripresa. Per ora la Jama'a preferisce una strategia di basso profilo. Chissà se stiamo assistendo a un abbandono della violenza o a una tregua provvisoria.
Tra queste due rivolte si possono trovare diversi elementi di somiglianza, che permettono di definire in quali condizioni le strategie neoliberali spingono una popolazione normalmente pacifica a rischiare lo scontro armato con forze infinitamente superiori.
In entrambi i casi il focolaio principale della rivolta si trova in una regione storicamente marginale rispetto ai centri della vita politica, economica, sociale e culturale della nazione. Sia in Chiapas che in Alto Egitto le grandi distanze e un terreno difficile hanno determinato un tipo di vita e una visione della realtà molto diversi da quelli prevalenti nella società nel suo insieme. In generale l'atteggiamento più diffuso nei confronti di queste regioni emarginate e dei suoi abitanti è piuttosto negativo: in Messico i chiapanecos sono da molto tempo considerati limitati, lenti e un po' bizzarri; in Egitto gli abitanti dell'Alto Egitto i sai'dis sono visti allo stesso modo. Ma ciò non impedisce né agli uni né agli altri di considerarsi membri a pieno titolo della nazione.
Altre somiglianze riguardano le strutture locali. In Chiapas il vertice della gerarchia sociale è nelle mani dei ladinos, che si considerano europei; vengono poi i meticci (mestizos) e infine, in fondo alla scala, gli indiani. In Alto Egitto, a predominanza musulmana, la gerarchia è basata sulle divisioni tribali. Al vertice ci sono gli ashraf, che dicono di discendere dal profeta Maometto, seguiti dagli arabi, originari delle tribù giunte dall'Arabia. Alla base vi sono i fellahin (contadini), che sarebbero i discendenti degli abitanti preislamici convertiti all'islam (1).
Un altro parallelo si delinea nella natura dei legami clientelari tra lo stato centrale moderno e le due regioni in questione. I legami tra notabili locali e governi centrali sono da molto tempo il canale privilegiato attraverso il quale passa l'autorità dello stato. La rivoluzione messicana degli anni Venti non ha modificato sensibilmente la situazione in Chiapas.
Quando il Partito rivoluzionario istituzionale (Pri) si presenta come forza politica dominante posizione che conserverà per oltre sessant'anni lo schema clientelare garantisce l'appoggio dell'élite ladina del Chiapas. Anche l'esperienza nasseriana (1952-1970) non riescirà a sradicare il clientelismo che caratterizza l'apparato politico e amministrativo dell'Alto Egitto. Nonostante la riforma agraria avvantaggi i fellahin, i proprietari terrieri tradizionali useranno vari stratagemmi per conservare la maggior parte delle loro proprietà. E il Cairo continuerà a utilizzare personale di origine ashraf o araba per la polizia e per le forze di sicurezza locali.
Che cos'è la "tradizione"?
Quello che maggiormente avvicina il Chiapas e l'Alto Egitto è la miseria delle loro popolazioni. Le immense risorse del Chiapas non hanno dato nulla alla maggioranza dei suoi abitanti. E' uno degli stati più poveri del Messico. La popolazione, essenzialmente rurale, si compone soprattutto di indiani e di contadini meticci, e ha sempre sofferto di un alto tasso di natalità e delle tensioni che ne derivano a causa della mancanza di terre coltivabili. Le malattie e le altre disgrazie legate alla povertà colpiscono soprattutto sugli altopiani, dov'è scoppiata la rivolta zapatista. Anche l'Alto Egitto possiede immense risorse agricole, ma è da molto tempo la regione più povera del paese. A metà degli anni Novanta contava il 72% dei poveri dell'intero Egitto. Gli indici sanitari, demografici, dei servizi sociali e della qualità della vita rivelano le stesse disparità tra l'Alto Egitto e il resto del paese. E sono ovviamente gli strati inferiori della popolazione del Chiapas e dell'Alto Egitto che ne pagano il tributo maggiore.
Gli indiani del Chiapas e i fellahin dell'Alto Egitto sono spesso descritti come gruppi "tradizionali". Ma l'uso di questa etichetta impone alcune precauzioni. Si può infatti attribuire a "tradizionale" il significato di preservazione e di osservanza di alcune pratiche o costumi storici, ma è falso considerare questo termine come stagnazione, resistenza al cambiamento. Lo smentiscono gli sforzi fatti dalle due popolazioni nel corso degli ultimi decenni per migliorare le loro condizioni di vita.
Negli anni Sessanta un gran numero di indiani poveri del Chiapas si trasferisce nel profondo della giungla nella speranza di fondare una colonia, di avere una vita migliore in un ambiente ostile. Nel corso degli anni Settanta, quando gli altopiani diventeranno il terreno privilegiato dei programmi governativi diretti a integrare le comunità indigene nello sviluppo nazionale, sono migliaia gli indiani che cercano lavoro nell'edilizia e in altri settori. Nel frattempo un numero altrettanto grande di indiani si sposta in città alla ricerca di migliori occasioni economiche.
A loro volta i fellahin dell'Alto Egitto rispondono con entusiasmo alle promesse populiste di Gamal Abdel Nasser, che non solo suscita la speranza di un miglioramento generale e di una ridistribuzione più equa delle ricchezze, ma otterrà anche risultati concreti. La riforma agraria, sebbene meno vasta rispetto alle promesse fatte, avvantaggia realmente i fellahin.
E l'apertura delle università gratuite negli anni Sessanta permetterà il rapido sviluppo di una popolazione di studenti universitari, poiché i giovani si riversano in massa su quello che appare un mezzo per sfuggire alla miseria e ai vincoli di una rigida gerarchia sociale. Dal momento che il governo si impegna ad assumere tutti i laureati, la burocrazia nazionale fornisce un lavoro e un certo prestigio ai figli di contadini che non hanno alcuna speranza di ottenere della terra. Per chi non può permettersi gli studi universitari, il boom petrolifero degli anni Settanta offre un'altra possibilità. Molti vanno in Arabia saudita e negli altri paesi del Golfo Persico, determinati a mettere da parte un capitale sufficiente per comprare della terra, creare una piccola impresa o costruire una casa. Il duplice obiettivo dei fellahin, come degli indiani del Chiapas, è la sicurezza economica e la mobilità sociale.
Religione, ribellione e neoliberalismo Purtroppo il parallelo tra i due gruppi non si ferma qui.
Conosceranno entrambi una crescente disillusione. La selva Lacandona non sarà più una nuova frontiera a causa della massiccia corruzione in seno al governo. Gli anni Ottanta segneranno il crollo economico del Messico: il progetto di associare le comunità indiane allo sforzo di sviluppo nazionale sarà spazzato via dalla crisi. La costante diminuzione degli investimenti federali contribuirà a indebolire o a eliminare le organizzazioni governative destinate ad aiutare i contadini e i coltivatori indiani.
Le speranze della popolazione affamata dell'Alto Egitto andranno incontro a una delusione altrettanto brutale. La gratuità dell'insegnamento popolare e le assunzioni nel settore pubblico perderanno la loro attrattiva quando la burocrazia prenderà proporzioni tali da portare alla creazione di posti assurdi e ad anni di attesa per chi vuole trovare un lavoro retribuito ormai il diploma di laurea non dà più automaticamente diritto al posto. Inoltre un fellah che torna a casa con i risparmi di un lavoro temporaneo nel Golfo o che esce dall'università, scopre che la rigida struttura sociale dell'Alto Egitto dà poche speranze di mobilità socioeconomica (2). E poi, via via che il boom finisce, le possibilità offerte alla manodopera migratoria diminuiscono.
Un altro punto in comune tra gli indiani del Chiapas e i fellahin dell'Alto Egitto si ritrova nell'impatto sulle due comunità delle strategie economiche neoliberali adottate dal Messico e dall'Egitto. L'Egitto compie i primi timidi passi in questa direzione nel corso degli anni Settanta, quando il presidente Anwar al Sadat comincia a voltare le spalle alla politica di Nasser. Il suo riassetto dell'economia lo porta a cercare l'appoggio delle élite rurali tradizionali. Il nuovo potere acquisito dai grandi proprietari terrieri nell'Alto Egitto che porta talvolta all'intervento militare per cacciare i contadini dalle terre contestate mette in pericolo non solo le aspirazioni dei fellahin, ma anche i loro magri risparmi. Nel corso degli anni Ottanta il presidente Hosni Mubarak, dapprima timidamente e poi con molta più energia, perseguirà una politica di deregolamentazione, in particolare con la riduzione delle sovvenzioni all'agricoltura e al consumo e con la liberalizzazione dei prezzi.
A patirne le conseguenze peggiori sono ovviamente i più poveri.
L'Alto Egitto rimane la regione più diseredata del paese e quando, a partire dalla metà degli anni Ottanta, la recessione colpisce le economie basate sul petrolio del Medioriente, le richieste di lavoratori immigrati si riducono. La crisi e la guerra del Golfo del 1990-1991 provocano un ritorno massiccio nel loro paese degli emigrati egiziani e una grande incertezza sulle future migrazioni. Ma i contadini vedono confermati i loro peggiori timori nel 1992 quando, alla fine di un acceso dibattito iniziato nel 1985, il governo vota una legge che dopo un periodo di cinque anni ha come effetto l'annullamento delle disposizioni che disciplinano l'affitto delle terre.
Naturalmente il testo è votato in nome della razionalizzazione del settore agricolo. Definita "la legge per cacciare i contadini dalle loro terre", questa disposizione sconvolgerà profondamente quella che gli strati rurali più poveri considerano "una base importante dell'ordine morale e politico" (3).
Gli eccessi neoliberali in Messico cominciano negli anni Ottanta e avranno sugli indiani del Chiapas un impatto simile. La riduzione delle sovvenzioni nel settore agricolo e soprattutto la soppressione degli aiuti alla produzione del caffè arrecano un grave danno all'economia contadina. La sorte dei piccoli agricoltori è aggravata dalla liberalizzazione della politica commerciale, che comporta un'invasione di prodotti agricoli stranieri meno cari. Nel frattempo, il blocco dei grandi programmi governativi e la privatizzazione di importanti strutture agricole provocano una forte contrazione dell'occupazione nelle campagne. Ironia della sorte, il bilancio economico globale dei settori rurali del Chiapas appare molto florido nel corso di tutti gli anni Ottanta grazie agli ingenti profitti ottenuti dai grandi proprietari terrieri, che traggono vantaggio dalla volontà governativa di privilegiare l'industria agroalimentare. La svolta decisiva arriverà nel 1992, quando la modifica dell'articolo 27 della Costituzione mette definitivamente termine alla riforma agraria e autorizza la vendita delle terre comunali distribuite in passato.
I rapporti tra religione, ribellione e neoliberalismo offrono un altro punto di convergenza tra le rivolte del Chiapas e dell'Alto Egitto. Il cattolicesimo nel primo caso, l'islam nel secondo sono sempre stati al centro della cultura delle due regioni. In entrambi i casi le credenze religiose dominanti sono il frutto di un sincretismo che vede convergere credenze ortodosse e popolari e influenze precolombiane o preislamiche.
Uno degli aspetti più rilevanti di questo fenomeno, in Chiapas come nell'Alto Egitto, è rappresentato da una vita religiosa quotidiana satura di fede nel miracoloso e nel magico, di fiducia nella possibilità di un mutamento sovrannaturale della realtà terrena che sarebbe impossibile con qualunque altro mezzo.
E questo vale soprattutto per le popolazioni emarginate.
Tradizionalmente, le istituzioni religiose delle due regioni hanno preso posizione in favore dello status quo, ma la religione è anche servita da fermento alle ribellioni e i leader hanno potuto convertire posizioni un tempo conservatrici in un attivismo rivoluzionario di carattere religioso.
Questo cambiamento comincia tra gli emarginati del Chiapas negli anni Sessanta, quando Samuel Ruiz è nominato vescovo di San Cristobal. L'establishment ladino pensa di trovarsi di fronte a un conservatore, ma dovrà ben presto ricredersi. "Era un uomo molto tranquillo", spiega un notabile ladino, "cenava e prendeva il caffè nelle case più importanti di San Cristobal. Poi, a poco a poco, è cambiato". Il cambiamento si spiega con l'adesione di monsignor Ruiz alla teologia della liberazione (4). Denunciando la divisione in classi della società chiapaneca, il prelato tutela le organizzazioni rurali indipendenti, che lavorano per migliorare le condizioni di vita dei contadini. Dopo il 1970 gli sforzi del vescovo sono appoggiati dai giovani messicani di estrema sinistra rifugiatisi nel Chiapas per sfuggire alle forze di polizia. Quegli uomini e quelle donne, ai quali si unirà a partire dal 1980 una nuova generazione di giovani di sinistra, mobilitano i contadini su obiettivi vicini a quelli perseguiti dalla chiesa di monsignor Ruiz. Il loro atteggiamento militante porterà nel 1983 alla creazione dell'Ezln.
Speranze tradite La teologia della liberazione alla quale aderisce il vescovo e il marxismo dei nuovi arrivati non sono incompatibili e per diversi anni i due gruppi costituiranno organizzazioni contadine collegate le une alle altre. Nel corso degli anni Ottanta le élite del Chiapas si serviranno degli apparati pubblici locali e nazionali per intimidire ( e troppo spesso per eliminare) i militanti contadini. La repressione aggrava le tensioni tra i militanti religiosi e marxisti all'interno del nascente movimento contadino, e l'equilibrio si sposta sempre di più in favore della lotta armata. All'inizio degli anni Novanta le due correnti si separano. Tuttavia l'Ezln continua a godere della simpatia dei sostenitori non violenti di monsignor Ruiz e alcuni membri dell'Ezln continuano a provare un sentimento di rispetto misto a timore nei confronti del vescovo.
Il passaggio all'attivismo religioso in Alto Egitto, sebbene non sia dominato da nessuna figura carismatica, si compie sulla base di uno schema pressappoco identico. Per i lavoratori emigrati avrà una grande importanza l'esperienza in Arabia saudita e negli altri paesi del Golfo. Nel corso degli anni Settanta proliferano le moschee private, spesso finanziate da fellahin di ritorno dall'estero, dove hanno potuto beneficiare di quella promozione sociale che la struttura del potere in Alto Egitto continua a negargli. Si creano così diversi centri dove sempre più numerose si levano le voci in favore di un islam attivista, socialmente consapevole e che contesta la visione conservatrice della religione prevalente tra gli ashraf e gli arabi.
La Jama'a islamiya si sviluppa principalmente tra gli studenti dell'università di Asyut all'inizio degli anni Settanta e mantiene rapporti con le organizzazioni islamiche militanti nelle diverse regioni del paese. Tuttavia Mamoun Fandy, "uno dei primi figli di coltivatori ad aver beneficiato delle riforme nasseriane sull'insegnamento" e compagno di scuola di molti fondatori dell'organizzazione, ricorda che la Jama'a islamiya si distingue dagli altri gruppi islamici dell'Egitto per il suo carattere esplicitamente "alto-egiziano" e fellahin (5). Se da un lato la Jama'a considera il regime del Cairo come responsabile del tradimento dei valori islamici e vede la soluzione in uno stato islamico sottoposto alla sharia, dall'altro è decisa a modificare il rapporto di forze all'interno dell'Alto Egitto. Quando negli anni Novanta la Jama'a islamiya lancia la sua grande offensiva, gli anni passati a mobilitare le masse si riveleranno un grande vantaggio. Anche se i combattenti militanti superano appena le poche migliaia, la simpatia di cui godono nelle campagne e nei quartieri poveri delle città dell'Alto Egitto del tutto simile a quella di cui beneficiano gli zapatisti in Chiapas permetterà loro di resistere per cinque anni.
L'abbandono relativamente recente della violenza da parte della Jama'a indica probabilmente che l'organizzazione è ormai consapevole di poter raggiungere i suoi obiettivi solo attraverso la politica. Se così fosse, ecco che ripete in ritardo il riconoscimento da parte degli zapatisti di quella stessa realtà. Ma che cosa ha mai potuto spingere questi due gruppi a intraprendere una guerra così impari? La risposta va probabilmente ricercata in un insieme di fattori strutturali e culturali. Deriva dalla storia dell'emarginazione economica, politica e sociale degli indiani del Chiapas e dei fellahin dell'Alto Egitto, dalla relegazione di questi due gruppi sociali a uno status da "quarto mondo" nelle gerarchie locali, dall'aumento delle speranze presto deluse in una vita migliore e dall'effetto catalizzatore delle politiche liberali adottate dal Messico e dall'Egitto. A tutto ciò bisogna aggiungere l'evoluzione della visione religiosa dei due gruppi e ovviamente la natura originaria di questa visione.
Gli indiani del Chiapas e i fellahin dell'Alto Egitto, due popoli "tradizionali", hanno accolto con entusiasmo la prospettiva di cambiamento offerta dalle politiche nazionaliste degli anni Sessanta. Hanno conosciuto prima la delusione e poi i dolorosi cambiamenti legati all'impatto della globalizzazione neoliberista. Nel corso degli anni Ottanta la nozione stessa di cambiamento prodotta da istanze che sfuggono al controllo e addirittura alla comprensione stessa degli emarginati è diventata sinonimo di un pericolo grave e multiforme.
Come stupirsi, in simili circostanze, del potere coinvolgente della religione ? Il fascino fondamentale del suo messaggio è offrire a coloro che lo accettano una promessa credibile di cambiamento e, al tempo stesso, di resistenza al cambiamento.
Ciò spiega l'importanza attribuita sia dagli zapatisti che dalla Jama'a islamiya ai cambiamenti socioeconomici e alla preservazione dell'integrità culturale.
Il carattere sincretistico dell'ambiente religioso ha potuto rendere credibile una simile promessa. Una sottocultura caratterizzata da una religione popolare, in cui magia e miracoli fanno parte della vita quotidiana, favorisce la comparsa anche tra le persone più esposte ad altri stimoli di schemi di pensiero facilmente compatibili con la nozione di una giusta causa che un giorno dovrà trionfare.
Se così fosse, la globalizzazione neoliberista, con la sua progressiva diffusione negli angoli più sperduti della Terra, continuerà a incontrare gruppi disposti a sfidare le autorità nonostante la sproporzione delle forze in campo.




note:

* Professore di scienze politiche all'Università americana del Cairo
(1) Mamoun Fandy, "Egypt's Islamic Group: Regional Revenge?", Middle East Journal, Washington, vol. 48, n. 4 (autunno 1994), pp. 607-625. Si legga anche Mamoun Fandy, "The Tensions Behind the Violence in Egypt", Middle East Policy, Washington, vol. 2, n. 1 (1993).

(2) Mamoun Fandy, op. cit.

(3) Reem Saad, "State, Landlord, Parliament and Peasant: The Story of the 1992 Tenancy Law in Egypt", in Alan Bowman e Eugen Rogan (a cura di), Agriculture in Egypt From Pharaonic to Modern Times, Proceedings of the British Academy, Oxford University Press, Oxford, 1998, pp. 387-389.

(4) Sulla teologia della liberazione si legga Guy Petitdemange, "Théologie de la libération", in "L'offensive des religions", Manière de voir, n. 48, novembre-dicembre 1999.

(5) Mamoun Fandy, op. cit.
(Traduzione di A.D.R.)


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